PROLOGO
Spiaggia
di Waikiki, Isola di Oahu, Hawaii.
Sharon Carter se ne stava in bikini su una
comoda sedia a sdraio ed osservava sua figlia Shannon mentre cercava con impegno
di costruire un castello di sabbia.
Stava crescendo e lei si era persa i suoi
primi anni di vita. Aveva consapevolmente rinunciato a lei dicendosi che era la
cosa migliore ma forse era stata una scelta solo egoista.
Il destino le aveva dato una seconda
occasione e non l’avrebbe sprecata.
Non le capitava spesso di potersi concedere
una vacanza ma ne aveva bisogno dopo quello che aveva passato di recente[1] e
questo le dava l’occasione di dedicarsi a Shannon.
Venne colta di sorpresa quando, con un
discreto tossicchiare, un uomo attirò la sua attenzione.
Non era molto alto, aveva il muso da topo e
gli occhiali, e indossava un completo marrone decisamente fuori posto in quel
luogo.
Le si rivolse dicendo:
<Buongiorno Miss Carter. Mi scusi il
disturbo ma il mio datore di lavoro vorrebbe conferire con lei.>
La cosa la irritò alquanto, perché lei
conosceva quell’ometto con l’aria da ragioniere, il cui nome era Wesley, e
conosceva il suo datore di lavoro.
Se lui voleva vederla, questo poteva voler
dire una cosa sola: guai.
Sharon sospirò... guardò sua figlia che
giocava beatamente ignara che la loro meritata vacanza era stata appena
rovinata.
#41
CONFRONTI
di
Carlo Monni & Carmelo Mobilia
Villa
Carter, Virginia, qualche tempo prima.
Da un po’ di tempo a questa parte, Villa
Carter era divenuta il ritrovo del nuovo team di Sharon, una squadra costruita
sul modello di quella di Steve Rogers. Questo significava che ogni membro della
squadra poteva accedervi liberamente e questo valeva anche per Jack Monroe,
l’uomo che si faceva chiamare Nomad.
Quella mattina però Jack non era lì per
motivi di lavoro, tutt’altro: approfittando del periodo di riposo concesso alla
squadra, pensava di fare un’improvvisata a Sharon per poter trascorrere un po’
di tempo da solo con lei.
Era passato ad uno Starbucks a prendere del
caffè e dei muffin per la colazione: a quell’ora del mattino, di norma, Sharon
era sveglia per esercitarsi, da quel che ricordava.
Entrò nella casa dove non c’era più il
maggiordomo Smithers a riceverlo: quel poveruomo era stato assassinato da uno
degli uomini del Teschio Rosso e da allora Sharon non lo aveva ancora
sostituito.
Jack entrò con il caffè fumante in cucina ma
non si aspettava di certo di vedere lo spettacolo che lo attendeva: ai fornelli
c’era il suo compagno di squadra noto come Paladin con indosso solo un paio di
slip che stava preparando un’omelette.
<Oh!> esclamò quest’ultimo <Non
aspettavamo ospiti. Tu unisci a noi?>
Jack fu preso alla sprovvista e non riuscì a
rispondergli a tono.
<Ma con chi stai parlan... Jack!>
esclamò Sharon, nel vederlo in casa sua.
La donna era spettinata, si stava ancora
stropicciando gli occhi e indossava solo una camicia da notte di seta.
Anche un ingenuo avrebbe intuito che i due
avevano trascorso la notte insieme, e Jack Monroe era tutto meno che uno
sprovveduto.
Lasciò cadere il caffè e il sacchetto coi
muffin e andò con fare minaccioso in direzione di Paladin.
<Adesso vediamo quando vali senza quella
tua armatura del ca...>
<Jack! Ma che cosa fai?> disse Sharon,
frapponendosi fra i due uomini <Come ti permetti di fare queste sceneggiate
in casa mia?>
<Mettiti qualcosa addosso, pezzo di merda,
e raggiungimi fuori!> esclamò di nuovo Jack, in preda alla rabbia.
<BASTA, TI HO DETTO!> urlò Sharon <
Cosa pensi di fare, eh? Cosa sono questa sparate da macho? Non è affar tuo con chi passo la notte!>
lo riprese la donna, duramente <Non abbiamo alcun legame affettivo Jack.
Cosa ti fa credere di poter venire qui con questo atteggiamento da fidanzato
geloso? Io e te lavoriamo insieme e basta!>
<E con lui invece no? O che così che
conduci certe trattative?> rispose Jack.
Sharon per risposta lo schiaffeggiò,
facendogli cadere gli occhiali a specchio.
Non fu di certo questo a fargli male, quanto
il fatto che la donna avesse ragione.
A gran fatica Jack mandò giù un grido di
rabbia.
<No, hai ragione. Non è affar mio con chi
passi la notte.> raccolse i suoi occhiali dal pavimento e disse:
<Sai, Sharon, ho sempre avuti molti
scrupoli nel farmi avanti. Credevo che tu fossi troppo in gamba per me...
perchè io non ero all’altezza di Steve. Ma devo constatare che mi sbagliavo di
grosso.>
Poi, prendendo l’uscio, aggiunse:
<Ora capisco perché Steve ti ha
mollata.> e se ne andò sbattendo la porta.
Sharon rimase in silenzio, dispiaciuta non
tanto dalle sue parole quanto di aver ferito i suoi sentimenti.
<Omelette?> chiese Paladin, incurante
di quanto appena accaduto.
<Oh, sta zitto. Rivestiti e vattene.>
rispose stizzita la donna.
Quartier
Generale dei Vendicatori Segreti.
Era un freddo pezzo di metallo, ma che ormai
accompagnava James Buchanan Barnes da una vita.
Quel braccio bionico che decenni prima gli
avevano impiantato i russi era ormai parte di lui.
Poco tempo fa, Amadeus Cho, prendendo spunto
dalla tecnologia degli L.M.D, gli aveva trapiantato un braccio artificiale
molto più sofisticato, del tutto simile nell’apparenza a uno vero, ma la
mutante cyborg giapponese nota come Lady Deathstrike glielo aveva amputato.[2] In
attesa di costruirgliene un altro, il giovane genio di origine coreana stava
reimpiantandogli quella vecchia protesi.
<Mi dispiace James, al momento ti devi accontentare>
disse il ragazzo <So che non è molto gradevole, ma al momento non abbiamo
nulla di compatibile. Appena avrò gli elementi te ne fornirò uno più moderno,
come quello che è andato distrutto.>
<Fa con comodo.> rispose Bucky < È
una vita che uso questo. Ormai ci sono abituato.>
<Sai... scusa se te lo dico, ma mi sono
sempre chiesto come si possa vivere con un arto freddo e uh, inquietante come
questo.>
<Ci si abitua, Amadeus. E nonostante
tutto, mi sento fortunato: in guerra ho visto ragazzi con gli arti strappati a
cui non sono mai state apportate certe... modifiche. Quei ragazzi sono andati
avanti con la loro vita senza lagnarsi. Quando penso a loro, alla loro forza e
al loro coraggio, mi viene facile.>
<Ben detto.> disse Steve entrando nel
laboratorio <Dobbiamo concentrarci più su quello che abbiamo che su quello
che ci manca, e ritenerci fortunati perché c’è chi sta peggio di noi.>
<Ehi ma che eleganza, comandante
Rogers!> fece notare Amadeus <Porta la signorina Puentes fuori a
cena?>
<No stasera io e Donna Maria abbiamo
programmi differenti. Io e Buck dobbiamo incontrare dei vecchi commilitoni.>
<Ci saranno entrambi?> chiese Buck.
<Si.> rispose Steve.
<Bene. Ho proprio bisogno di una vecchia
rimpatriata tra amici.>
Ambasciata
della Federazione Russa, Washington D.C.
La donna seduta alla scrivania indossava
l’uniforme blu delle Forze Aerospaziali[3]
della Federazione Russa con i gradi di Tenente Colonnello sulle spalline.
Aveva un caschetto di capelli biondi e occhi
azzurri dall’aria indagatrice.
Il suo nome era Anna Nikolaievna Amasova ed
era la rezident[4] del G.R.U.[5]
negli Stati Uniti.
La donna in piedi davanti a lei era anch’essa
bionda ed indossava un’attillata calzamaglia scura che le lasciava scoperto
l’ombelico. I suoi occhi di ghiaccio sostennero senza timore lo sguardo
dell’altra.
<Era ora, Vedova Nera, che tu venissi a
fare rapporto sulle tue ultime attività.> disse l’ufficiale.
<Mi perdonerà, Compagna Colonnello, se
sono stata troppo impegnata a sgominare organizzazioni terroristiche che erano
potenziali pericoli per la Rodina?> [6]
replicò Yelena Belova.
<Non essere impertinente con me, Vedova
Nera, potrei fartene pentire.>
<Mi farebbe trasferire in Mongolia? Non so
se il Presidente sarebbe d’accordo, dopo i fatti della Piazza Rossa[7]
credo ritenga importante il mio ruolo qui.>
<Per stavolta lascerò stare. Ora
aggiornami sulla squadra di cui fai parte.>
<Non c’è molto da dire: ci occupiamo di
missioni rischiose che i normali agenti dello S.H.I.E.L.D. non possono
affrontare ed i risultati parlano per nou.>
<E che sai dirmi del suo misterioso
comandante?>
<Che non c’è nulla di misterioso in lui: è
un agente che ha agito per anni sotto copertura per questo il suo fascicolo è
stato secretato.>
Non era esattamente una bugia ma nemmeno la
verità. Steve Rogers si fidava di lei e Yelena non aveva alcuna intenzione di
tradire la sua fiducia.
<E del Soldato d’Inverno che mi dici? Voi
due siete molto…. Intimi, giusto?>
Yelena rimase impassibile e replicò
freddamente:
<Non è un pericolo per la Rodina.>
<Ma se dovesse diventarlo, tu sai qual è
il tuo dovere.>
Yelena strinse le labbra. Lo sapeva fin
troppo bene.
Quartier
Generale dei Vendicatori Segreti.
Questa vecchia base dello S.H.I.E.L.D., di
cui ormai non c’era più traccia negli archivi e che Nick Fury aveva concesso a
Steve e i suoi uomini, aveva una stanza che un tempo era dedicata
all’addestramento delle reclute, dove venivano simulate sessioni di
combattimento.
Jack Flag aveva impostato un programma di
allenamento che stava ripetendo più volte.
Schivava raggi stordenti che gli venivano
sparati contro e saltava gli ostacoli che gli si paravano davanti mentre colpiva
i droidi che impersonavano i nemici in quella che era la simulazione di un
scontro a fuoco.
Amadeus Cho era rimasto alla base e si era
fermato ad osservarlo.
Jack sembrava ossessionato a migliorarsi e a
mettersi alla prova con una determinazione spaventosa.
Al termine dell’ennesima sessione, Amadeus
interruppe l’allenamento portandogli un Energy drink e un asciugamano.
<Ehi amico, che ne dici di una pausa?>
Il ragazzo, esausto, ne approfittò.
<Grazie, tempismo perfetto.>
<Ci stai dando dentro eh?>
<Per forza. Devo esercitarmi. Sono passato
in major league adesso ...>
<Ah, non mi sono mai piaciute le metafore
sportive. Appartengo alla generazione play station.>
<Male ragazzo, male.> lo riprese
bonariamente Jack <Dovresti fare dello sport. Quando avevo la tua età
adoravo giocare a baseball. Passavamo le ore a giocare, volevo passare
professionista.>
<Mah, l’attività fisica non fa per me. Tu
al contrario...>
<Beh come ti stavo dicendo, devo
esercitarmi per raggiungere il livello degli altri. Se ti sembro in gamba io,
non hai visto loro in azione... sono di un'altra categoria. A volte mi domando
cosa ci faccio, qui.>
<Che vuoi dire?>
<Vedi... quando iniziai, volevo solo
tenere le strade sicure, dare una mano alle persone comuni. Anche quando
divenni partner di Capitan America... era un sogno che si realizzava, ma
sostanzialmente il mio lavoro era rimasto lo stesso. Ma adesso mi si chiede di
fare l’agente segreto, di combattere terroristi che piazzano bombe e vogliono
ammazzare centinaia di persone... è una cosa... troppo grande, più grande di
me. Non so se sono all’altezza, se ho i numeri giusti.>
<Beh, so quello che intendi. Voglio dire,
il mio lavoro si svolge in laboratorio, ma capisco cosa provi. Siamo in prima
linea contro i pazzi, non è una cosa da poco. Però sai... quando il comandante
Rogers era in cerca di nuove reclute per la squadra, aveva messo il tuo nome in
cima alla lista. Ora, se uno come lui ritiene che tu abbia “i numeri giusti”,
chi siamo noi per contraddirlo?>
Jack sorrise.
<Sei un bravo ragazzo, Amadeus.>
<E sono pure uno degli uomini più
intelligenti del mondo, non scordarlo.> sorride di rimando il giovane.
Midtown,
Manhattan.
Due uomini entrarono in uno dei più famosi ristoranti
di New York ed il più giovane dei due, un giovanotto dai capelli castani, si
chinò verso l’altro, biondo, fisico palestrato, occhi azzurri:
<Questo posto deve costare un occhio della
testa, Steve. Non so se la mia paga di una settimana basti per saldare il
conto.>
<Tranquillo, Bucky, oggi siamo ospiti.>
replicò Steve Rogers con un sorriso.
Prima che James Buchanan Barnes potesse
replicare, un solerte cameriere si avvicinò loro dicendo:
<Mister Rogers e Mister Barnes, giusto? Se
volete seguirmi, Mr. McKenzie vi sta aspettando:>
<Mr. McKenzie?> borbottò Bucky.
Il cameriere li condusse sino ad un tavolo
riservato dove li attendeva un uomo alto, dai capelli neri che indossava un
impeccabile gessato scuro e che era aveva le sopracciglia arcuate e le orecchie
a punto. Assieme a lui c’era un altro uomo biondo che indossava un completo
blu.
L’uomo dai capelli neri al vederli piegò le
labbra in quello che poteva essere solo un sorriso.
<Benvenuti amici.> li salutò e poi,
mentre si sedevano.
<È un piacere rivederti in buona salute
Namor.> replicò Steve <Le ultime volte che ci siamo incontrati[8]
non eri esattamente dell’umore giusto per socializzare.>
<Lo è mai stato?> commentò in tono
divertito l’altro, seduto accanto a Namor.
<Se non fossimo in questo posto, ti darei
una bella lezione, Hammond.> replicò Namor.
<Questa sì che è divertente. Hai
dimenticato quante volte ti ho scaldato le chiappe?> ribattè Jim Hammond,
l’originale Torcia Umana.
<Dio mio, siete sempre gli stessi!>
esclamò Bucky.
<Tu, invece, Barnes, sembri più maturo. Mi
hanno raccontato quello che hai passato ma vedo che sei di nuovo in gamba.
Sapevo che eri un duro.> affermò Namor.
<Ah, grazie. Anche a te sono capitate un
sacco di cose, Namor. Così mi è stato detto.>
<Sono sopravvissuto ed è la sola cosa che
conta. Ci hanno dato per morti più di una volta ma siamo ancora tutti qui.>
<Non tutti.> precisò Bucky. <Ho
saputo che Toro non ce l’ha fatta.>
<No. Purtroppo lui no.> replicò con
tono amaro Jim Hammond.
<Già. Quale assurda ironia; era l’unico di
noi ad essere sopravissuto alla guerra e oggi è l’unico di noi a non essere qui
presente.> disse Steve.
<Io ero con lui quando è successo. È caduto come avrebbe voluto: fermando un
criminale.>[9]
Il silenzio calò sui commensali, un silenzio
che fu rotto dalla voce di un cameriere:
<I signori gradiscono dello Champagne?>
Un attimo di indecisione, poi Bucky replicò:
<Perché no?>
Una volta che i calici furono riempiti si alzò
in piedi, sollevò il suo e disse con voce stentorea:
<A Toro, amico indimenticabile.>
<A Toro!> replicarono gli altri in
coro.
Spanish Harlem, Manhattan New York.
Donna Maria Puentes e suo cugino Jorge
Santiago avevano prenotato un tavolo presso il ristorante di Felix Garcia, un
loro connazionale, dove ormai Maria si recava ogniqualvolta avesse tempo libero
e voleva gustarsi la cucina del suo paese di origine, Rio Valente, un tempo
noto col triste nome di Rio de Muerte.
Felix era venuto in America tanti anni prima
proprio per sfuggire alle oppressioni del loro cugino Hector, il perfido
dittatore che ribattezzarono col nome di “Maiale”.
<Bienvenidos
amigos!> li accolse gentilmente Felix.
<Hola
Felix. Che piacere rivederti. Tu non conosci mio cugino Jorge?>
<No Maria, non ho avuto il piacere.>
<Jorge è un'altra delle “pecore nere”
della nostra famiglia. Pensa che era stato ripudiato da Hector e anche lui,
come te, fu costretto a chiedere asilo polito altrove.>
<Un nemico di Hector non può essere che amico
mio. Benvenuto a New York.>
<Grazie Felix.>
Felix li fece accomodare ad un tavolo, prese
le loro ordinazioni e li lasciò da soli.
<Allora cugino... sono molto felice di
passare un po’ di tempo con te.>
<Anche a me fa piacere rivederti, Maria. E
dimmi... come vanno le cose col prestante professore?>
<Tra me e Steve le cose vanno bene. Oggi
era a cena con alcuni vecchi amici. Ma prima o poi vi devo far conoscere.>
<Mmmm... quindi è una cosa molto
seria.>
<Direi di si.>
<Uhm, mi fa piacere...>
<Che c’è?>
<Nulla nulla, figuriamoci ...>
<Jorge, ti conosco da sempre, da che
eravamo bambini. Non sai nascondermi le cose... allora, cosa vuoi dirmi?>
Il ragazzo si prese qualche secondo, prima di
rispondere.
< È che... sono venuto a conoscenza di una
notizia ... e non so come la prenderai. Potrebbe sconvolgere l tuo mondo e non
voglio che...>
<Ma di che parli? Cosa? Cos’hai
saputo?> chiese Donna Maria con grande curiosità.
<Maria, non è facile dirtelo ma... mi hanno
contattato alcuni tuoi ex compagni della resistenza, non riuscivano a mettersi
in contatto con te e mi hanno detto che... el
libertadòr del Rio es vivo.>
Quel nome fece sussultare Donna Maria.
El Libertadòr. Colui che guidò la rivoluzione
a Rio de Muerte. L’uomo che aveva dato la vita per la causa. L’unico altro uomo
mai amato da Donna Maria Puentes.
Penitenziario
di Attica, Stato di New York.
L’uomo rinchiuso in questo penitenziario si
chiamava Daniel Leighton, anche se da tempo rispondeva al macabro nome di
Tagliagole. Non riceveva mai alcuna visita, di solito.
Per questo motivo quel giorno i aveva una
curiosità quasi morbosa nello scoprire chi era venuto a trovarlo.
Non sapeva chi avrebbe trovato dall’altra
parte del vetro, ma di certo non si aspettava lei.
Rachel Leighton era lì con la cornetta in
mano che attendeva.
<Ciao Danny.> disse lei.
Dopo qualche secondo di esitazione, lui
rispose:
<Quando il secondino mi ha detto che avevo
una visita, non mi aspettavo di vedere la stessa persona che mi ha fatto
rinchiudere qui.[10] A saperlo che eri tu,
sarei restato in branda.>
<Non è così insolito che un detenuto
riceva la visita di una sorella, no?>
<Non se è la sorella che lo ha fatto
arrestare!> imprecò lui, battendo un pugno sul tavolo.
Una guardia lo riprese. Daniel raffreddò gli
animi.
<Preferisco saperti qui al fresco che
sepolto sottoterra, Danny. Sei la sola famiglia che mi rimane. Mamma, Richie e
Willy sono tutti morti... mi resti solo tu.>
<Già, e vendermi ai federali è una
dimostrazione d’affetto, per te?>
<Ti eri messo in affari con Karla Sofen,
Danny. Quella Moonstone ... è pericolosa.
È una donna totalmente priva di morale e di scrupoli. Non avrebbe
esitato a farti ammazzare, per salvarsi il culo.>
<Sono grande abbastanza per badare a me
stesso, “mamma”. Non mi serve la balia. So gestire i miei affari e quelli per
cui lavoro.>
<Non la Sofen, Danny. Quella prende gli
uomini come te e li spreme, per poi buttarli nel secchio come limoni spremuti.
Non hai letto il suo fascicolo, è una ex psichiatra che induceva i suoi
pazienti al suicidio.>
<Cosa ne sai tu degli “uomini come me”
eh?> disse stizzito <Non ho certo paura di una strizzacervelli col trip
del comando. Te lo ripeto, so badare a me stesso.>
<Lo diceva anche Richie. Stesse parole,
stesso atteggiamento... e mi è morto tra le mani, ucciso da un negoziante che
avevamo rapinato.> disse la ragazza facendo un sospiro carico di amarezza.
Il suo sguardo era sinceramente triste, nel
ricordare il loro fratello morto.
Daniel Leighton era arrabbiato per il fatto
che lei lo avesse fatto rinchiudere lì... ma quella donna era sempre sua
sorella, la stessa sorella che, anni prima, per voler cercare di unirsi alla
loro banda, venne aggredita e violentata.
Solo per voler essere come i suoi fratelli,
per unirsi alla loro gang.
Forse, se Daniel fosse stato un fratello
migliore, per lei le cose sarebbero andate diversamente. Non avrebbe subito
quella violenza. Forse non sarebbe finita nel giro.
Forse avrebbe avuto una vita normale, un
marito, magari dei figli... e invece è finita pure lei con l’indossare una
maschera, un costume e a prendere parte a quella vita assurda.
Forse lo stare in quella cella era il modo
che aveva scelto il destino per fargli scontare quella colpa, pensò per un
momento Daniel.
<Devi pensare a te stessa, Rachie. Hai
preso parte è un gioco pericoloso anche per chi sta nell’altra squadra... forse
anche di più. Devi stare sempre bene attenta! Guardati sempre le spalle, e non
fidarti mai di nessuno. Mi hai capito bene?> disse, con un tono sinceramente
apprensivo.
<Abbi cura di te, Rachie.> concluse
poi, lasciando la cornetta e facendo segno che il colloquio era finito.
Mentre osservava la guardia lo riportava in
cella, a Rachel Leighton sembrò di vedere suo fratello piangere.
EPILOGO
Hawaii,
oggi.
L’uomo non era semplicemente grasso, era
enorme, imponente. Anche Sharon Carter doveva ammettere di esserne
impressionata.
Il nome dell’uomo era Wilson Fisk ma era più
noto con il soprannome di Kingpin, l’ex zar del Crimine di New York che da
qualche tempo si godeva una sorta di dorata pensione alle Hawaii… o così
sembrava in apparenza..
<Sono lieto che abbia accettato il mio
invito, Miss Carter.> disse.
<Come avrei potuto rifiutare?> replicò
lei sarcastica <Le dispiace dirmi perché mi ha fatto venire qui? Vorrei
tornare da mia figlia. Anche se è in buone mani, odio lasciarla da sola in un
luogo che non conosce.>
<Comprendo le sue ansie di madre e le
assicuro che finché resterete a Oahu sua figlia è al sicuro, me ne faccio
personalmente garante. Detesto profondamente chi fa del male ai bambini.>
<Molto toccante da parte sua. Ora, se
volesse rispondere alla mia domanda…>
<Ho molto ammirato il modo in cui la sua
squadra ha risolto l’affare Koch[11]e
sapendo che lei e la sua deliziosa figlia stavate trascorrendo un periodo di
vacanza proprio qui, mi sono detto che lei era proprio la persona adatta per un
certo incarico.>
<So che le debbo un favore per le
informazioni che ci ha fornito sulla Koch ma la avverto, Fisk: non intendo fare
nulla che riguardi affari criminali, in particolare droga od omicidi.>
<Né io glielo chiederei. Rispetto la sua
etica.>
Fisk fece un largo sorriso poi proseguì:
<Quello che voglio che faccia per me è
recuperare un oggetto finito in mani sbagliate.>
Sharon strinse le labbra e rimase in silenzio
per quello che le sembrò un tempo interminabile poi disse:
<Mi dica di più.>
CONTINUA
NOTE DEGLI AUTORI
Episodio
di puro relax, senza azione, ma con momento intesi ad approfondire gli stati
d’animo dei nostri protagonisti.
Cosa
potremmo dire che già non sia stato già spiegato nella storia? Nulla e non vi
diremo nulla nemmeno sul prossimo episodio, sarà una sorpresa. -_^
Carlo & Carmelo
[1] Vedi gli ultimi episodi.
[2] Nell’ultimo episodio.
[3] L’equivalente russo
dell’Aviazione.
[4] Capo delle spie in un
paese straniero secondo la terminologia russa.
[5] Glavnoye Razvedyvatel'noye Upravleniye. Direzione Principale Informazioni, il
servizio segreto militare russo.
[6] Patria in Russo.
[7] Vedi episodio #30.
[8] Su Battaglione V #5 e
Vendicatori #100.
[9] Su Sub Mariner Vol. 1°
#14 (Prima edizione italiana Fantastici Quattro, Corno, #70).
[10] Nell’episodio #23.
[11] Negli episodi #35/37.